A Genova, negli anni Cinquanta, grazie all’illuminata committenza di Caterina Marcenaro,
direttrice della Ripartizione Belle Arti e Storia della città, Franco Albini progetta l’allestimento di tre splendidi musei,
riconosciuti in tutto il mondo come capolavori dell’architettura del Novecento.
Oggi, pur con qualche modifica, hanno resistito alla prova del tempo.
Tuttavia, come nelle altre lezioni, anche in questo caso abbiamo preferito utilizzare la documentazione fotografica originale.
Nella sistemazione delle Gallerie Comunali di Palazzo Bianco, ultimate nel 1951,
Albini rende evidente il concetto di “ambiente nell’ambiente”, soluzione caratteristica del suo rarefatto linguaggio,
in due registri espressivi che si possono intuire nella difformità di trattamento delle sale della collezione permanente
rispetto a quelle destinate alle mostre temporanee.
Alle pareti bianche del palazzo cinquecentesco si sovrappongono le fini geometrie cartesiane dei tiranti neri che reggono i dipinti
e in alto aerei rettangoli contengono gli apparecchi per l’illuminazione artificiale,
mentre vetrine e supporti sono concepiti come elementi unici per esibire gli oggetti.
Il climax dello “spazio atmosferico” del museo genovese è la disposizione dei frammenti della Elevatio animae di Margherita di Brabante,
scultura di Giovanni Pisano, su un supporto mobile metallico, oggi sciaguratamente perduto.
Il visitatore entra in contatto dinamico con l’opera d’arte: l’alza, l’abbassa, la fa girare,
grazie a un dispositivo meccanico che gli permette di conoscere l’attualità della sua bellezza.
Invece, la sala dedicata alle mostre temporanee è organizzata con un reticolo di montanti e tiranti
che indica il carattere provvisorio e decisamente più neutrale dell’allestimento.
Qui, i montanti di legno nero, sostenuti da una maglia di cavi d’acciaio posta a pochi centimetri dal soffitto,
sono costituiti all’estremità da due punte a cono con terminali cilindrici per l’appoggio a terra e in alto
da un corpo a sezione quadrata ritagliato da lunghe asole per il fissaggio diretto dei quadri o delle vetrine.
A Genova, su Strada Nuova, oggi via Garibaldi, si fronteggiano Palazzo Bianco e Palazzo Rosso,
quest’ultimo costruito tra il 1671 e il 1677, entrambi donati alla fine dell’Ottocento dalla duchessa di Galliera,
erede della famiglia Brignole-Sale, al comune di Genova, insieme a tutte le altre ricchissime collezioni d’arte.
Nel 1952, Albini riceve l’incarico per il restauro e l’allestimento del Museo di Palazzo Rosso,
ultimato nel 1961 sotto la direzione di Caterina Marcenaro.
Il primo obiettivo dei progettisti è quello di esporre il palazzo stesso, grande monumento barocco,
riportandolo all’originale integrità, valorizzata anche attraverso interventi
come quello della chiusura delle logge con grandi vetrate di cristallo senza telai e con giunti e perni in bronzo.
L’illuminazione delle opere è regolata da proiettori appesi, con un braccio metallico ad angolo,
ad una sbarra che corre attorno all’imposta delle volte.
Ma la particolarità di Palazzo Rosso, rispetto alle delicate atmosfere di Palazzo Bianco,
è una più decisa incidenza plastica e cromatica dell’allestimento.
La novità del sistema espositivo è ampiamente riconoscibile nelle sculture dell’atrio d’ingresso,
nei supporti girevoli per i dipinti al primo piano, oppure, nel secondo piano nobile pavimentato in feltro rosso,
nell’impalcatura che regge l’enorme specchiera seicentesca in legno dorato di Filippo Parodi.
Chiudono il progetto due eccezionali pezzi di bravura,
quasi dei cameo in cui Albini entra direttamente in scena con il suo talento:
la scala ottagonale ritagliata in continua tensione lungo i quattro piani dell’edificio
e, nel sottotetto, l’appartamento ricavato per Caterina Marcenaro in cui tutto è di nuovo sospeso in aria,
dalla scaletta in legno staccata dal pavimento che porta al soppalco biblioteca
alla cappa in ferro del camino appesa a tre tiranti, fino al grande angelo barocco sostenuto da un montante in ferro nero;
mentre alle pareti, lungo tutta l'imposta dei soffitti, corre una piattina di ferro nero
da cui scendono i cavi che reggono i quadri.
Nei primi anni Sessanta, dopo l’inaugurazione del Museo di Palazzo Rosso,
la città di Genova possiede dunque un formidabile sistema museale
che, oltre alle due strutture su “Strada nuova”, può contare su un altro piccolo gioiello
realizzato dal sodalizio tra Albini, Helg e la Marcenaro: il Museo del Tesoro di San Lorenzo.
In questo spazio ridotto, scavato sotto la cattedrale di San Lorenzo e ispirato alla tholos micenea,
il visitatore percorre un corridoio la cui forma irregolare è ritagliata da tre sale circolari.
I vibranti contrasti tra il rigore della geometria che disegna una successione di “stanze delle meraviglie”,
la forza corporea della grigia pietra di Promontorio lavorata a scalpello che riveste le murature,
il ritmo dei travetti concentrici che sostengono la copertura e la lucentezza delle pietre preziose che formano gli oggetti.
Sono questi gli elementi che danno vita a un luogo
in cui ancora una volta la realtà vivente dell’arte rinnova la storia e le tradizioni delle cose,
compiendo un’opera di astrazione dal tempo dedicata all’immediato presente.
A questo punto, potrebbe rivelarsi opportuno ai fini del nostro discorso
confrontare i musei genovesi di Albini con le esperienze museografiche coeve.
Raccontare le affinità tra l'allestimento di Palazzo Rosso e quello di Palazzo Abatellis a Palermo,
disegnato negli stessi anni da Carlo Scarpa,
è sicuramente un’operazione di grande interesse per definire i rapporti di amicizia tra due maestri
che non hanno timore a scambiarsi informazioni sulle rispettive opere.
Ciò nonostante, il supporto telescopico della scultura di Giovanni Pisano a Palazzo Bianco
e il piedistallo di cemento della statua equestre di Cangrande della Scala che Scarpa innalza nel Museo di Castelvecchio a Verona (1957-64),
se da una parte rivela gli stessi propositi dei due autori, accomunati da un sapiente e ironico sguardo sul passato,
dall’altra parte marcano una sostanziale differenza nel manifestare un procedimento conoscitivo dell’opera d’arte
che, in Scarpa, invita il visitatore ad affidarsi alla voce stentorea dei sensi,
mentre in Albini agisce nel silenzio etereo del distacco intellettuale.
Un giudizio critico, con il quale concludo questa lezione, che riprende un'illuminante frase
contenuta in una pagina della Storia dell'architettura italiana di Manfredo Tafuri,
testo al quale rinvio per ogni approfondimento sui temi qui trattati.
Come scrive Tafuri: "negli anni Cinquanta è la 'misura' degli interventi albiniani a fare testo.
Di fronte ai pur apodittici segni di Albini, le invenzioni museografiche di Carlo Scarpa appaiono troppo parlanti (...).
Da un lato, dunque, il 'lasciar essere' di Albini,
dall'altro la magistrale narratività di Scarpa: l'alternativa non dà ancora scandalo".